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Private Life: dieci anni dopo La famiglia Savage, il nuovo film di Tamara Jenkins su Netflix

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Vedere un film di Tamara Jenkins è anche un modo per sentirsi a casa. Tutto scorre via lieve nella sua narrazione, nei suoi personaggi, eppure tutto si deposita, perché ogni cosa possiede un peso specifico che solo una bilancia di precisione potrebbe stimare.

È una questione di equilibrio, di tatto, e di attenzione per i dettagli. È una questione di misura tra l’ironia e la complessità delle situazioni. Ed è per via di una scrittura sensibile e di una visione limpida, perlopiù invisibile, che La famiglia Savage (2007) è un film inappuntabile, un capolavoro del cinema indipendente americano degli anni Zero.

Due fratelli, Laura Linney e Philip Seymour Hoffman, si riavvicinano per prendersi cura del padre affetto da demenza senile. L’anziano Leonard, sballottato tra l’Arizona e Buffalo, che «si esprime con la merda» ci fa tenerezza, ci spinge alla compassione. Eppure, nel partecipare al sostegno che Wendy e Jon offrono al padre nei suoi ultimi mesi di vita, percepiamo, senza averne mai tracce visive o riferimenti espliciti, quanto quest’uomo in passato possa esser stato stronzo.

Wendy (Laura Linney) dorme con pigiami stampati a fiori e cuoricini. Ruba la cancelleria in ufficio e gli antidepressivi dagli armadietti degli anziani. Mangia un certo tipo di cereali di una certa marca, che ci vuole un arnese per acchiapparli nello scaffale in alto al minimarket. Racconta balle: prova diversi tipi di scorciatoie per riuscire a ottenere una borsa di studio per diventare una commediografa. Convive con una gatta e con un ficus, si accontenta di una relazione con un uomo sposato su cui sfoga un’insofferenza di cui il poveruomo non ha nessuna colpa.

Jon (Philip Seymour Hoffman: quanto ci manchi) insegna teatro all’università, da anni porta avanti una ricerca su Bertolt Brecht che dovrebbe diventare un libro. Si commuove mangiando le uova strapazzate a colazione, accumula libri e riviste. Vita sedentaria e colesterolo alto. Quando gioca a tennis si strappa una spalla al primo scambio. Convive con una donna polacca che non ha il coraggio di sposare e che sarà costretta a tornare al suo paese perché il visto le è scaduto definitivamente e non può contare sulle intenzioni solide del compagno.

Wendy e Jon devono averne passate di brutte nell’infanzia – a un padre «gli stiamo dando più di quanto lui abbia dato a noi» si accompagna una madre assente, che li ha abbandonati – e adesso sono due adulti incasinati alle prese con una cosa più grande di loro: il declino fisico e mentale di un genitore per cui provano sentimenti contrastanti.

Sono i dettagli a rendere palpabile la solitudine di Wendy e Jon, a scolpirne le caratterizzazioni. La segreteria telefonica personalizzata con una citazione da un film con Bette Davis, la pianta infilata sul sedile di dietro come fosse un passeggero, il libro sul teatro dell’assurdo di Beckett rimasto incastrato tra i cuscini del divano, un attrezzo rudimentale per la fisioterapia allestito in casa, le lezioni di ginnastica aerobica in tv. Un esercito di oggetti a colmare un vuoto, rimedi casalinghi, antidoti contro la solitudine. Wendy e Jon potranno cambiare la loro vita mettendo l’una nelle mani dell’altro la rispettiva solitudine, condividendola. E non è forse dividendo con l’altro la propria solitudine che si diventa intimi, che ci si conosce davvero?

Al centro del nuovo film di Tamara Jenkins, Private Life – passato al Sundance Film Festival e uscito a ottobre su Netflix – c’è la solitudine di un’altra coppia, questa volta sono marito e moglie, alle prese con le cure da rivolgere, ancora una volta, verso una terza persona. Rachel e Richard potrebbero essere fratelli, perché si conoscono benissimo e non fanno sesso da un sacco di tempo. Il pene e la vagina sono oggetti problematici, strumenti fisiologici da correggere, attrezzi mal funzionanti preposti ormai solo al concepimento, alla realizzazione di un desiderio che diventa forsennato: generare.

Nella Famiglia Savage la terza persona da accudire è il padre Leonard; la fonte di ogni riflessione, di ogni ripensamento, del senso di colpa, è la morte. In Private Life l’argomento è la vita, il desiderio di procreare, la rabbia e la frustrazione che deriva dalla difficoltà di avere un figlio. E la terza persona, dapprima il bambino ipotetico, è la nipote adolescente Sadie, consenziente donatrice di ovuli, con tutte le complicazioni etiche e affettive che la faccenda comporta.

E infatti, Private Life è un film che ha il coraggio di enucleare dopo soli tre minuti – prima che tutta quanta «l’artiglieria pesante» venga messa in campo – la sintesi del suo più intimo tormento: «avere un bambino è un atto immorale».

Rachel sta per pubblicare un libro, Richard lavora in teatro. Ma non è sui personaggi che si concentra questa volta l’attenzione dell’autrice, bensì sull’ossessione per lo scopo. Nella Famiglia Savage, Jenkins raccontava gli effetti della privazione, la sutura di un passato doloroso non rivelato, in Private Life racconta le conseguenze del desiderio, e il tormento per un futuro imponderabile. Private Life è un «film a tema» molto più di quanto non fosse La famiglia Savage, e, senza forse possedere la stessa impeccabile misura tra l’invenzione e l’epica del quotidiano, riesce a essere però radicale e al contempo leggero, a mantenersi magicamente in equilibrio su un filo del rasoio ancor più delicato.

Ecco allora che la produzione di spermatozoi è paragonabile a un distributore di Fanta, navigare su un sito web di donatrici di ovuli diventa eccitante come comprare su eBay. L’iniezione quotidiana di ormoni diventa un atto erotico e, per la stessa logica, la visione di un film porno è invece la faccenda meno stimolante del mondo per ricavare dello sperma utile.

Richard e Rachel hanno dei parametri specifici con cui leggere il mondo, la loro vita segue un obiettivo ed è organizzata secondo procedure rigorose. Ed è la familiarità con la specificità, e con la reiterazione, di visite, medici, pareri, tentativi, cure che Private Life esprime un’urgenza emotiva toccante e tutta la sua arrendevole genuinità.

E poi c’è lo stallo esistenziale restituito attraverso inquadrature frontali, un montaggio talvolta metaforico per raccontare le idiosincrasie della quotidianità. Nei film di Tamara Jenkins ogni cosa bizzarra trova una collocazione naturale: non c’è artificio, nulla risulta strumentale. Compresa la gestualità dimessa e impulsiva degli attori: il pudore sensibile di Paul Giamatti, la veracità nervosa di Kathryn Hahn. E se il talento di Giamatti è già discretamente noto al grande pubblico, per la forza iconica di Hahn vorremmo esistesse una piattaforma capace di questa maratona: Afternoon Delight, Transparent, I Love Dick, Private Life.

Infine, nei film di Tamara Jenkins le trame secondarie sono talmente bene inserite nell’economia del racconto da non risultare mai complementi d’arredo, riserve di comicità o dramma, bensì veri e propri detonatori di contesto e di senso. Jenkins lavora con un’attenzione vivace e sofisticata sul dialogo e sulle tracce secondarie.

Tra le pieghe del rapporto tra fratello, sorella e padre nella Famiglia Savage c’era il conflitto generazionale, l’integrazione razziale, la crisi di mezza età, la farmacologia, l’ambizione e la frustrazione della classe media colta americana. Allo stesso modo, ad aggiungere complessità al rapporto tra marito, moglie e nipote in Private Life ci sono l’inquietudine dell’adolescenza, la possibilità di un legame autentico svincolato dell’eredità del sangue, la morale familiare e religiosa, il femminismo, il desiderio di una rifondazione dei valori democratici negli Stati Uniti.

Essere soli in due è un inizio, o meglio, è la fine di qualcosa e l’inizio di qualcos’altro. Ed è questo il territorio su cui si articola l’umanità tormentata e delicata di Tamara Jenkins, la cui produzione prevede tempi di gestazione lunghissimi: L’altra faccia di Beverly Hills, La famiglia Savage e Private Life sono usciti a distanza di una decina d’anni l’uno dall’altro.

Chissà quanto tempo ci vorrà per vedere qualcos’altro di Jenkins, per sorridere davanti alla coreografia di un gruppo di anziane in gonnellino davanti a siepi simmetriche, per partecipare al terrore di due adulti alla cui porta dei bambini bussano per festeggiare Halloween. Chissà se sarà ancora una volta la fragilità dell’essere umano, con le sue specificità uniche e irripetibili, a farci sentire a casa. A permetterci di sentire il personaggio di un film come fosse un fratello o una sorella. A farci sentire fortunati per avere qualcuno accanto: una famiglia, un compagno, una compagna, un amico, un amante, due cani, un gatto, quello che sia. Qualcuno con cui condividere tutta la dignità della nostra goffa, commovente, sacrosanta solitudine.

Antonia Conti è nata a Livorno nel 1980. Si è laureata in Storia e critica del cinema all’Università di Pisa con una tesi sull’adattamento cinematografico di opere letterarie. Dal 2010 vive a Roma, dove lavora in ambito editoriale.

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